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  • Immagine del redattoreMaria Rita Olivas

Sua altezza il Bettelmatt e sua maestà il Barolo: un'alchimia di essenze

È finalmente arrivato il Bettelmatt, aristocratico formaggio di montagna.

Il nome, il profilo di una montagna, una stella alpina e un sentiero: nel logo del Bettelmatt è già contenuta la sua essenza di formaggio di altitudine. Un'altezza esclusiva, regale: solo poche forme prodotte ogni anno – tra le 5 e le 6 mila – nei soli mesi estivi, in soli 7 pascoli tra la Val Formazza e l’Alpe Devero, dai 1800 ai 2400 metri s.l.m., da soli otto produttori, con una ricetta antica, risalente ai Walser, popolazione svizzera che giunse in queste valli nel XIII secolo attraverso il passo del Gries.

Proprio sul sentiero che dal passo scende verso la pianura, si trova l’omonima Alpe Bettlematt, che per prima produsse questo formaggio, diffusosi successivamente in altri pascoli della zona. I Walser utilizzavano il latte intero, senza privarlo della preziosa panna utilizzata abitualmente per il burro, ed era quindi considerato pregiato già all’epoca, tant’è che veniva usato come merce di scambio e forma di pagamento di affitti e tasse.

Proprio dalle parole Walser “bettel” (questua), e “matt” (pascolo), potrebbe infatti derivare il nome del formaggio. Oppure, più semplicemente, il nome risalirebbe al Battlematthorn, la Punta dei Camosci, che segna uno dei confini fra Piemonte e Svizzera e che sormonta l’Alpe. Bettelmatt è un’ampia distesa circondata da ghiacciai e riparata dai venti, dove tutt’oggi pascolano una settantina di vacche di razza bruna nei mesi estivi, brucando erbe foraggere aromatiche quali la mutellina e la festuca rossa, che conferiscono l’aroma peculiare al formaggio. Proprio la presenza di queste essenze nei pascoli definisce il confine della zona di produzione del Bettelmatt e la sua unicità.

Tutti i produttori aderiscono ad un decalogo di produzione che tutela la salubrità del prodotto e i consumatori: il latte intero, crudo, è caseificato due volte al giorno alla temperatura di mungitura con caglio animale, in grandi caldaie di rame all’interno delle casere sugli alpeggi. La cagliata è poi rotta in piccoli granuli per spurgare il siero e viene cotta alla temperatura di 44-46 gradi per asciugare ulteriormente la pasta. Di seguito, la massa viene estratta, riposta nelle fascere avvolta in teli di cotone e pressata sotto una lastra di pietra per almeno 12 ore. Una volta consolidata, la forma viene salata e avviata alle cantine di stagionatura, dove rimarrà per almeno due mesi, aspettando in autunno l'analisi dei tecnici Agenform, incaricati dall'Unione Montana Alta Ossola, che certificheranno con la marchiatura la qualità del prodotto. Oltre al marchio, sullo scalzo sono presenti la data di produzione e il nome dell’alpeggio di provenienza.

Sotto la ruvida crosta marrone, la pasta è giallo paglierina tendente all'oro, colore conferitole dai carotenoidi presenti nell’erba. Appare compatta, di consistenza morbida, con piccole occhiature. La toma appena marchiata emana già alla prima olfazione un profluvio di fiori di montagna ed erbe alpine essiccate, tanto che ad occhi chiusi si potrebbe scambiare per una tisana digestiva. All’assaggio la tendenza dolce è particolarmente spiccata, esaltata da una grassezza sottile, che non si concede a burrosità troppo sfacciate, ma rimane elegante, raffinata, con un leggero guizzo sapido a farne da contraltare. Decisamente persistente, chiude con una lunga scia balsamica e rifrescante in bocca, degna di un grande rosso evoluto.

Cosa abbinarvi, quindi, se non un vino fatto della sua stessa essenza aristocratica? Sua maestà il Barolo, in particolare una versione evoluta della Riserva Vignolo 2011 di Cavallotto che rimanda alle stesse note balsamiche del formaggio, che non ha perso la spinta acido-sapida per bilanciarne la grassezza, e che esibisce la stessa lunga persistenza del Bettelmatt.

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